martedì 11 marzo 2014

Saving Mr. Banks - Let's go fly a kite

Perché andare a vedere Saving Mr. Banks? Forse perché siamo cresciuti con i film della Disney e perché Mary Poppins l'abbiamo visto tutti decine di volte e sappiamo tutte le canzoni a memoria. Ma soprattutto: chi di noi non ha desiderato la borsa di Mary Poppins(sì OK io volevo la borsa ma soprattutto le scarpe). 
Inoltre pare che Walt Disney vada proprio di moda in questo periodo... del resto l'ha citato anche Renzi in suo recente discorso!




Saving Mr. Banks racconta di come si è arrivati alla realizzazione di Mary Poppins, di come Walt Disney si fosse impuntato (per via di una promessa fatta alle sue figlie) e di come gli ci vollero ben vent'anni prima di riuscire a farsi cedere i diritti del romanzo. Tra l'altro ho scoperto che Mary Poppins è solo il primo di una serie di romanzi dedicati alla figura della mitica bambinaia pubblicati da Pamela Lyndon Travers.

La scrittrice britannica è interpretata da una super arcigna Emma Thompson, mentre il ruolo di Walt Disney è stato affidato a un insopportabile - ma perfetto per il ruolo - Tom Hanks (scusate sono allergica a Tom Hanks, non ci posso fare niente!) 

Il film si regge proprio sull'incontro/scontro tra i due protagonisti: il padre padrone della Disney innamorato follemente del personaggio creato dalla Travers e la scrittrice terrorizzata all'idea che la sua Mary Poppins possa diventare uno stupido cartone animato. Ed è anche lo scontro tra due mondi diversi,in particolare tra Stati Uniti e Inghilterra. 

Sono due ore di dialoghi brillanti in cui Tom Hanks e la Thompson battibeccano senza mai annoiare, grazie anche al sostegno fondamentale dei personaggi che li circondano: i mitici fratelli musicisti Richard e Robert Sherman, lo sceneggiatore Don Dagradi e l'autista della Travers (Paul Giamatti in versione un po' melensa).

Grazie all'ottimo montaggio, i flashback non sono mai intrusivi, anzi si fondono perfettamente con la narrazione, rendendo assolutamente fluido il passaggio passato-presente. È proprio grazie a questi flashback che scopriamo quanto le origini di Mary Poppins personaggio siano legate al passato della scrittrice. 
Purtroppo questi flashback sono anche la parte meno convincente del film, eccessivamente melodrammatici e tendenti al patetico. In particolare Colin Farrel nel ruolo dell'amato padre della Travers non convince neanche un po'.

Non svelerò nulla, se non che si scopre che la Travers era in realtà australiana e non inglese! È incredibile pensare che un personaggio così profondamente inglese come Mary Poppins sia stato creato da un'australiana. 
Per gli appassionati segnalo anche il film-documentario del 2002 The Shadow of Mary Poppins che racconta la vita della scrittrice. 




Dunque un film che parla di un altro film: è la storia della nascita di un mito, della costruzione di una favola. È un film su Walt Disney prodotto dalla Walt Disney, quindi - in teoria - l'oggetto più 'disneyano' che possa esistere. Per fortuna non è così, altrimenti risulterebbe insopportabile...

Ah, se vi capita guardatelo in inglese. Doppiato purtroppo perde tantissimo.


QUINDI: Supercalifragilistichespiralidoso




lunedì 17 febbraio 2014

Dallas Buyers Club - Madama Butterfly

Con un po' di ritardo ho finalmente visto Dallas Buyers Club, l'attesissimo film del canadese Jean-Marc Vallée. Attesissimo soprattutto per l'interpretazione di Matthew McConaughey, che per calarsi nei panni del malato di AIDS ha perso ben 22 chili. È risaputo che queste operazioni a Hollywood piacciono molto e infatti già si parla di Oscar come miglior attore protagonista. 




Ispirata a una storia vera, questa sceneggiatura a Hollywood ha girato 15 anni prima che se ne riuscisse a trarre un film. Racconta la storia di Ron Woodrof - elettricista texano la cui vita si divide tra rodeo, donne, alcol e droga - che in seguito a un malore scopre di aver contratto il virus dell'HIV. Siamo nel 1985, anno in cui moriva Rock Hudson, e l'AIDS era ancora considerata la malattia degli omosessuali. 

Qui inizia la personale battaglia di Ron contro la morte, i pregiudizi e le industrie farmaceutiche. Inizia anche la trasformazione di Ron, non solo a livello fisico ma in particolar modo a livello personale. Da cowboy omofobo a difensore dei gay e migliore amico di un transessuale. Trasformazione a mio avviso un po' scontata e sicuramente già vista, ma sempre efficace e coinvolgente. In realtà Ron Woodrof era molto diverso dal personaggio descritto nel film: molto più tollerante e forse addirittura bisessuale.  Quella di discostarsi dalla realtà dei fatti è stata una mossa molto astuta, necessaria per creare la parabola dell'uomo che si riscatta attraverso la malattia. Del resto, come scrive il critico di Libération: "è abbastanza tipico di Hollywood trasformare in sole due ore un imbecille disonesto in un eroe"!

Tutto la vicenda ruota attorno a Matthew McConaughey, davvero bravo e convincente, ma ancora più stupefacente è Jared Leto - anche lui dimagritissimo - nei panni del transessuale sieropositivo Rayon. Delicato e al tempo stesso ironico, Rayon è forse il personaggio che rimane più impresso ed è un peccato che abbia un ruolo così piccolo. Molto meno coinvolgete Jennifer Gardner, nel ruolo della dottoressa che gradualmente si appassiona alla causa di Woodrof. 

Nonostante alcuni momenti di stanca e un paio di inserti dissonanti - la dottoressa che sfonda la parete cercando di attaccare il quadro oppure la scena delle farfalle in cui si raggiunge un livello di lirismo e di poesia fin troppo elevato che finisce con lo stonare - Dallas Buyers Club ha il pregio di non cadere in facili sentimentalismi e nel patetico. Un viaggio interessante, ma molto convenzionale, che descrive il dolore e soprattutto la capacità di reagire dell'essere umano. Con questo film il regista di C.R.A.Z.Y (piccolo gioiellino, vedetelo se vi capita!) dimostra di essere molto maturato, però non convince ancora del tutto. 
Buono il doppiaggio, anche se, come potete vedere dal trailer originale, nella versione italiana si perde la godibilissima parlata texana di Ron.



Quindi: STARVE TILL YOU WIN (an Oscar)



martedì 11 febbraio 2014

A proposito di Davis - Who let the cat out

"Se non l'avete mai sentita, ma non sembra nuova, allora è una canzone folk". Se come me siete cresciuti ascoltando i vecchi dischi di Bob Dylan della mamma, allora questo è il film che fa per voi: perché il fantasma di Dylan ci accompagna silenzioso - ma mai invadente - per tutto il film, nascosto tra i fotogrammi. Fino alla chiusa finale, vero tocco di classe.







Finita la proiezione, ho sentito un ragazzo che infastidito rispondeva alla fidanzata: "Come fa a piacerti, è un film senza trama". In effetti non c'è una vera e propria trama in questo film, ma non è necessaria. I Coen possono questo e altro.
Liberamente tratto dalla biografia di Dave Van Ronk, "The Mayor of MacDougal", il film racconta in perfetto stile Coen le avventure e le disavventure di Llewyn Davis, giovane cantante folk squattrinato, che vaga con la sua chitarra, senza cappotto, senza una meta precisa, nella New York dei primi anni '60. Interpretato da Oscar Isaac, davvero perfetto per il ruolo, Llewyn Davis è un solitario, dorme sul divano di chi capita, si esibisce per due soldi dove e quando capita, sembra suonare più per sé stesso che per gli altri. Cerca il successo, ma forse non ci crede troppo e soprattutto non è disposto a scendere a compromessi. Del resto con certa musica non si possono fare soldi.
Suo compagno di viaggio, un bel gatto rosso dal nome simbolico: Ulisse (è forse un omaggio all'Ulysses Everett McGill di Fratello dove sei?). Il gatto, che per stessa ammissione di Joel Coen è stato aggiunto proprio perché il film non ha una storia, è co-protagonista e al tempo stesso alter ego di Davis. È incarnazione di libertà e indipendenza, quella libertà a cui non riesce a rinunciare, non volendosi adeguare al trend musicale o all'unione con qualcun altro. Unione per lui impossibile, dopo la morte dell'ex partner. Non a caso i gatti del film sono due. Uno, come l'Ulisse omerico farà ritorno a casa, mentre l'altro, quello sfortunato, quello senza nome, finirà ferito e zoppicante come del resto finisce Llewyn. 
Il gatto abbandonato e poi cercato disperatamente sembra essere un omaggio al gatto di Colazione da Tiffany. Ma anche le finestre che danno sulle scale antincendio e i vicoli ricordano il film di Blake Edwards, girato proprio nel 1961.
Nella sua Odissea personale, Llewyn si trova a intraprendere un viaggio verso Chicago, nella speranza di farsi sentire dal leggendario produttore Bud Grossman. Un viaggio on the road claustrofobico e grottesco, in compagnia del musicista jazz eroinomane Roland Turner (uno straordinario e a tratti wellessiano John Goodman) e dal suo valletto taciturno. 

Questo film è anche un breve viaggio all'interno della scena musicale che caratterizzava il Greenwich Village di New York prima che Dylan facesse la sua apparizione. È un omaggio che i Coen decidono di fare a un periodo musicale da loro molto amato. 
Coraggiosa e ammirevole la scelta di lasciare tutte le performance nella loro interezza, il che vuol dire anche diversi minuti consecutivi di canzone, cosa a cui forse non siamo molto abituati ma che ci permette di calarci completamente nel mood del film. Oltretutto il suono è registrato in presa diretta, a partire dalla bellissima "Hang me, Oh Hang me". Gli attori cantano tutti con le loro voci, dalla bravissima Carey Mullingan - che aveva già dato prova delle sue doti canore in Shame con la splendida esecuzione di "New York, New York" - a Justin Timberlake, che interpreta la versione di sé stesso degli anni '60. Questo film segna anche la quarta collaborazione tra i Coen e lo storico produttore T Bone Burnett (premio Oscar per Crazy Heart), mentre Marcus Mumford è produttore musicale associato. 
Va da sé che la colonna sonora è meravigliosa, e un motivo in più per comprarla è la presenza della versione inedita di "Farewell" di Bob Dylan, registrata durante le sessioni di The Times They Are A-Changing. Sì, lo so che comprare cd non è più di moda...


Quindi: FARE THEE WELL MY HONEY











martedì 28 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street - And the beat goes on

And the beat goes on per ben tre ore. Tre ore che qualcuno potrebbe definire eccessive e che invece solo lui poteva girare così: per fortuna che Scorsese c'è!



Spiegatemi per favore le polemiche e il fiume di parole che sono state scritte sulla presunta amoralità di questo film, del suo regista e di Leonardo DiCaprio. Il Time si chiede se a
l di là della qualità del film, The Wolf of Wall street sia una critica o una celebrazione dello stile di vita di Jordan Belfort, "un uomo che non ha rispetto di niente tranne che per il denaro". Qualunque spettatore dotato di un minimo di spirito critico si accorge benissimo che la condiscendenza nel raccontare e giudicare di Scorsese è solo apparente. Sotto, e nemmeno troppo a fondo, si nasconde la storia di un uomo schiavo delle proprie nevrosi e delle proprie debolezze e non c'è nessun bisogno di puntare il dito e condannarlo moralmente. Non c’è nessuna celebrazione, anzi quel mondo viene palesemente ritratto in tutti i suoi eccessi: cocaina, orge, Ferrari e Lamborghini bianche, yatch, lancio di nani e puttane.

Detto questo, secondo me il film è davvero godibile, è Scorsese allo stato puro, quello di Godfellas e Casinò per intenderci. Il parallelismo con Quei bravi ragazzi è fin troppo evidente, a cominciare dalla voce off di Belford/DiCaprio che racconta la parabola professionale e personale del broker, proprio come faceva Henry Hill/Ray Liotta ricordando i suoi esordi criminali. Molto simili sono anche le tappe che segnano il cammino dei due: la formazione, i capi/mentori, la famiglia e i compagni di viaggio, l'ascesa rapidissima e il declino. 

Il mentore di Di Caprio è uno strepitoso e magrissimo Matthew Mcconaughey, reduce dalle riprese di Dallas Buyers Club. Personalmente l'ho sempre ritenuto un attore inutile e invece qui mi ha stupito perché ti rimane super impresso nonostante il suo sia un ruolo minuscolo, starà in scena a dir tanto 5 minuti. 

La vera famiglia di Belford è composta dal padre, che inizia presto a collaborare con la società fondata dal figlio forse senza rendersi conto che si tratta di una banda di truffatori e la madre che vediamo solo di sfuggita. Padre e madre sono gli unici personaggi "positivi" del film e ricordano tantissimo i veri genitori di Scorsese, ripresi abilmente dal regista in quel bellissimo documentario che è Italoamericani (1974).

Ma la famiglia sono anche gli amici, o meglio i soci in affari, un gruppo di cialtroni il cui unico scopo è quello di fottere i clienti e fare una montagna di soldi da poter poi buttare via. Tra tutti svetta l'amico Donnie Hill, interpretato dal fantastico Jonah Hill, esilarante nella scena in cui, per distruggere la volontà di un impiegato, si mangia il suo pesce rosso. Sarà una citazione di Kevin Kline in Un pesce di nome Wanda?(Beh a me comunque ha strappato un applauso in sala). E poi c’è Jon Berthal, il Shane di The Walking Dead, spettacolare qui in versione ancora più tamarra.
Perfetti anche Jean Dujardin (The Artist) nel ruolo del banchiere svizzero e Margot Robbie nel ruolo della moglie Barbie.

The Wolf è la lunga soggettiva colpevole, drogata e famelica di Jordan Belfort. È come una grande abbuffata caratterizzata dalla sua bulimia e dal suo desiderio di toccare tette a caso, sniffare qualsiasi tipo di droga e guadagnare soldi. Ed è un DiCaprio immenso, veramente da Oscar a sto giro. 

Una carrellata di eccessi, di personaggi che sembrano usciti da Porky's. Si passa da Bob Clarke per arrivare fino a Carl Theodor Dyrer, insomma dal profano al sacro. "Ti do 10000 dollari se ti fai rasare a zero", è quanto viene proposto a una delle segretarie, trasformandola così in una moderna e grottesca Giovanna D'arco. 
E per finire come dimenticare la scena del salvataggio da parte degli italiani, che accolgono i naufraghi con vino rosso e le note di Gloria di Umberto Tozzi, talmente trash da essere geniale!



Quindi: PARTY TILL YOU PUKE

giovedì 23 gennaio 2014

American Hustle - Get into the groove

OK, sono di parte. Subisco troppo il fascino degli anni '70 e ammetto di aver goduto dal primo all'ultimo minuto. Anzi, mi sbilancio, posso tranquillamente affermare che gli abiti sfoggiati da Amy Adams valgono il prezzo del biglietto. E ovviamente Jennifer Lawrence che canta Live and Let Die indossando guanti da cucina gialli!


Ma forse a voi non basta. Eccovi dunque qualche motivo per andarlo a vedere, se ancora non l'avete fatto.

È sicuramente il miglior film di David O. Russel, che già ci aveva stupito con Il lato positivo (ma non abbastanza da convincere la sottoscritta) e che qui firma a mio avviso la sua opera più riuscita. Il regista torna a parlare di individui che sono alla ricerca di un modo di cambiare e reinventare le proprie vite. E lo fa in modo scoppiettante, avvalendosi di un cast stellare e mettendo mano in modo abile alla sceneggiatura, che è tra l'altro ispirata a un fatto di cronaca realmente accaduto. Una clamorosa operazione dell'FBI che incastrò alcuni membri del congresso avvalendosi dell'aiuto di una coppia di truffatori. 
Efficace il modo in cui il poliziesco sfocia nel grottesco, ottima la tensione che nasce dalle truffe che si nascondono l'una dentro l'altra. Geniale l'uso quasi esagerato di costumi d'epoca e parrucche che potrebbero risultare ridicoli ed eccessivi, ma che invece ci convincono in pieno, grazie anche al fatto che gli attori si mettono completamente al servizio dei personaggi, anche a costo di mascherarsi e rendersi consapevolmente ridicoli. Come non citare l'improbabile acconciatura di Bradley Cooper o l'ennesima trasformazione di Christian Bale, quasi irriconoscibile all'inizio del film.

Unica pecca del film è forse l'eccessiva lunghezza, soprattutto nella prima parte si poteva forse asciugare qui e là, ma nel complesso regge e diverte.

Quindi: ENJOY IT




mercoledì 22 gennaio 2014

Nebraska - Under your skin

Nebraska è uno di quei film che ti entrano dentro e che ci vuole un po' per metabolizzarli.
È come una canzone che ti piace al primo ascolto, ma che poi devi riascoltare ancora per poterla apprezzare completamente. 



Premiato a Cannes e candidato a sei premi Oscar, tra cui quello come miglior regia, esce nelle sale l’ultimo film di Alexander Payne. Il regista torna a parlare di un tema raramente trattato al cinema, perché ritenuto poco interessante e poco redditizio: quello dell’anzianità. E lo fa scegliendo di raccontare un viaggio on the road, girato in un bianco e nero coraggioso che nulla toglie alla bellezza dei paesaggi del Nebraska.

La trama di Nebraska è semplicissima: il vecchio Woody Grant, alcolizzato, smemorato e un po’ burbero crede di aver vinto un milione di dollari e decide quindi di partire per Lincoln per andare a riscuotere il suo premio. Inizia così il viaggio, che vede padre e figlio attraversare le strade e i campi del Nebraska. In fondo il film è tutto qui, succede davvero poco, eppure succede tantissimo a livello emotivo. Il viaggio diventa ovviamente un modo per esplorare il rapporto tra i due, e pian piano emergono limiti e debolezze di entrambi. Questa avventura permette al figlio, che ha deciso di assecondare la follia dell’anziano genitore, di capire qualcosa di più della figura paterna. Non bisogna però aspettarsi grandi rivelazioni, e forse il bello è proprio questo. 

Il film richiama subito alla memoria Una storia vera di David Lynch, road movie che racconta di un altro vecchio, molto simile nella sua testardaggine al protagonista di Nebraska, che decide di intraprendere un viaggio alquanto improbabile a bordo di un tagliaerba per raggiungere il fratello. 

Lineare, semplice e diretto. Va a colpire proprio lì dove deve colpire. Il regista usa un tono leggero, a tratti ironico e non scade mai nel dramma. Insomma: non è alla ricerca della lacrima facile (e per fortuna!)

Per me il film sta tutto in quel breve istante in cui Woody finalmente guarda il proprio figlio, in quello sguardo che comunica più di mille parole e che ti rimane addosso anche quando esci dalla sala. Meraviglioso Bruce Dern. Davvero.

Quindi: AMATELO.